44 anni. Un lasso temporale non effimero. Eppure per Vincenzo Paparelli il tempo sembra non essere mai passato. La sua immagine vive. Nei cuori. Allo stadio. Nella vita.
Eppure questa storia non è una favola da raccontare, non è un episodio di cronaca da riesumare, non è un «mi ritorni in mente», non è un monito per il futuro, non è niente di tutto questo.
Questa storia parla di Amore e di un uomo, che vive ancora nei cuori di chi, in quel giorno nefasto, 28 ottobre 1979, giornata uggiosa e foriera di morte, c’era.
La storia di Vincenzo Paparelli è anche la mia storia.
Un ragazzino di sedici anni che in una domenica mattina uguale a tante altre col suo zaino, con la sua sciarpa biancoceleste, con il suo carico di passione si avviava al suo derby, a quel derby maledetto figlio degli anni di piombo.
Proprio come Vincenzo e come tanti altri
Era prassi di quei tempi andare allo stadio con largo anticipo (le partite cominciavano alle 14,30).
Alle 10 ero già in strada con i miei amici aquilotti del quartiere Portuense pronti a salire su quell’autobus (il mitico 31, mentre il 28 era appannaggio dei romanisti, due percorsi opposti, il primo che percorre l’Olimpica, il secondo il Lungotevere) che ci avrebbe avvicinato alla meta.
Speranze, risate, ansie, rituali, un mix che chi vive il derby conosce perfettamente.
Sembra incredibile, eppure in maniera anche abbastanza sfrontata arrivati intorno alle 11 a Piazzale Maresciallo Giardino, decidiamo di fare lo stesso percorso dei romanisti.
Arrivati alla famosa «Palla» davanti alla sud, sento ben chiari gli improperi di un gruppuscolo di giallorossi che ci adocchia. Chissà se fra loro ci fosse l’omicida di Vincenzo (omicida che esattamente 14 anni dopo morirà atrocemente alla stessa età di Vincenzo, 33 anni…). Arriviamo in Nord.
Anche Vincenzo si stava avviando verso la sua curva col suo carico di passione, di speranza, di Lazio nel cuore.
Entriamo probabilmente nello stesso tempo. Già, il tempo, ma esiste il Tempo?
Come può l’uomo parlare come fosse ora di una storia di quaranta anni fa? Passato che si fonde con il presente e che si proietta nel futuro.
Come quel razzo. No, il Tempo è nel nostro cuore e non è fatto di minuti
Quei minuti che ci separano da quel dramma: la curva Nord non era particolarmente popolata; mancava ancora tanto all’inizio del derby, ma io e Vincenzo eravamo lì: arrivano dalla curva opposta strani segnali: sono razzi.
Uno finisce nella collinetta dietro la curva lasciando un alone di fumo che lascia una scia sinistra. Ne arriveranno altri. Non c’è nessun controllo, nessuno si adopera, tutto prosegue senza ostacoli di sorta.
Nel parterre (quell’enorme spazio dedicato a chi arrivava all’ultimo e vedeva la partita in piedi) della sud quel gruppuscolo di romanisti armeggiava il congegno di morte che avrebbe poi spezzato la vita di Vincenzo.
La moglie accanto a lui che tenta di togliergli dall’occhio quell’ordigno sparato dalla curva opposta… Ero poco sopra e quel razzo lo vidi partire, come gli altri. Poteva colpire chiunque.
Immagini che non dimenticheremo mai
Immagini sottosopra, la scia, le grida, i canti beceri e soddisfatti della curva sud (quell’ «uno de meno» davvero ignobile…), i vetri divisori tra Curva Nord e Monte Mario frantumati per arrivare ad aggredire i romanisti che scappavano, i tifosi in Nord che in lacrime lasciavano lo stadio, l’entrata in campo delle squadre, Wilson sotto la curva per calmare i tifosi che volevano che il derby non si disputasse…un derby che si gioca, ma solo pro forma…
Quello che succede dopo è l’inizio di una nuova storia: ricordo il ritorno a casa, coi romanisti che il giorno dopo esultavano per quello scellerato gesto… loro sono così e non cambieranno mai.
La domenica seguente sto in curva sud, insieme agli Eagles, mentre si gioca un Lazio-Juventus paradossale, in un ambiente cloroformizzato; prima dell’inizio della gara campeggia uno striscione: «Tutti insieme, no alla violenza».
Mai frase fu così appropriata, perché se la violenza non è mai giustificabile, nemmeno per il più nobile dei motivi, figuriamoci per una partita di calcio…
Quel calcio che non sembra più calcio, quel calcio che deve tornare ad essere gioia di vita, non dolore di morte.
E quella vita noi continuiamo a vederla nel volto di Gabriele, il figlio di Vincenzo, un volto in cui dolore e amore si fondono per dirci che Vincenzo è vivo nei cuori di tutti.
E lo sarà per sempre.
Articolo a cura di Carlo Cagnetti – Sportpress24.com